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Atlante, obiettivo fatturato di 350 milioni nel 2026

Intervista con Natasha Linhart: "50% dei ricavi dall'export di cibi italiani di alta qualità"

Galeotti furono l’amore e le bevande a base di soia sostitutive del latte: così Natasha Linhart, inglese purosangue (ma bolognese di adozione dopo il matrimonio con un imprenditore italiano) ha iniziato 30 anni fa l’avventura della sua Atlante. E come il celebre personaggio mitologico, Linhart ha pensato al mondo intero sviluppando un business che oggi vale 250 milioni di euro di fatturato e nato da un’idea rifiutata, come spesso succede. Incontriamo l’imprenditrice alla vigilia di un lungo viaggio in Cina e India ed è lei stessa a raccontare come è andata.

“Io allora lavoravo per Nutricia e avevo costruito molte relazioni con la gdo. Con la nascita di mio figlio, che si scoprì allergico al lattosio, entrai nell’allora costosissimo mondo della soia in polvere, e mi venne l’idea di suggerire all’azienda di lanciare un prodotto a costo popolare, vendibile anche al discount. Il mercato c’era, vista l’alta percentuale di allergici presente in Italia, soprattutto al sud, ma niente: il gruppo non ci credeva. Così proposi l’idea ad Alpro, dove c’era un direttore generale che colse al balzo l’opportunità. Ma non avevo soldi, così mi fecero credito per un camion di merce. Il problema fu che vendetti tutto in pochi giorni, la bevanda di soia andò a ruba, così il credito si ampliò a 10 camion… così è nato tutto, ho creato la società e iniziato a importare prodotti dall’estero, sia per la gdo che per il canale discount, ed eccoci qui”.

Oggi Atlante è uno dei principali partner strategici a cui si affidano le principali catene italiane per la selezione, importazione e distribuzione di prodotti alimentari da tutto il mondo, attiva anche nell’export delle migliori specialità del made in Italy all’estero. “Il nostro modello di business – precisa Linhart - nasce dall’idea di lavorare per i clienti e non per i produttori, tenendoci assoluta libertà di scegliere: così il cliente, soprattutto i retailer, in giro per il mondo e poi in Italia, ci vedono come un alleato più che un venditore di prodotto”.

Facciamo un esempio? “Mi spiego. Il distributore sta cercando un prodotto, anche una cosa particolare come il pesto di pistacchio, e noi proponiamo tutte le varie soluzioni in termini di qualità, affidabilità, prezzo, capacità produttiva, certificazioni. Sostanzialmente siamo realizzatori di progetti: solo ora ne abbiamo 462 in atto, che vuol dire altrettanti prodotti su cui stiamo lavorando per poi arrivare alla produzione. Partendo sempre dalla esigenza del cliente. E poi spesso siamo anche noi a proporre opportunità, sulla base della nostra esperienza, e le nostre relazioni in tutto il mondo. E siamo considerati affidabili, visto che un cliente della taglia di Sainsbury (la più grande catena di supermercati inglesi, ndr) ci ha affidato completamente tutti gli acquisti in Italia, esclusi vino e carni”.

Quindi non sono import, ma anche esportazioni di prodotti italiani all’estero? I sovranisti alimentari gioiranno.

“Proprio così. Lavoriamo con 170 produttori italiani e sui 250 mln di fatturato, il 50% è export italiano: da commodity pure (pomodoro, pasta), poi semicommodities come pesto, condimenti, antipasti, aceto balsamico, prodotti di bakery (biscotti taralli, grissini, cantucci), fino agli speciali, come capperi di pantelleria, olii molto particolari, e così via. In Svizzera vendiamo prodotti molto apprezzati a marchio “Da Emilio”, come i pizzoccheri della Valtellina o gli gnocchetti sardi. E poi distribuiamo, oltre alla Gran Bretagna, in Sud Africa, in Israele, in Usa, in Grecia, in Ungheria, ecc”.

Come li selezionate?

“Partiamo da standard qualitativi molto alti, a volte ci troviamo con produttori che fanno prodotti fantastici ma non hanno certificazioni per l’export. Mi viene in mente un produttore di pasta campana con cui lavoriamo da 10 anni e ha fatto passi da gigante, il titolare è una donna che ha preso in mano l’azienda, è la Labor, vicino Salerno: ha fatto un processo di qualità eccezionale, li abbiamo portati in UK e perfino in Giappone”.

La società è italiana ma con la Svizzera avete una relazione speciale. 

“Decisamente, visto che abbiamo socio al 20% il gruppo Migros, un colosso cooperativo conglomerato che spazia dai supermercati ai discount (a marchio Denner), dall’industria alimentare alla finanza, fino ai servizi di Hotelplan. Credo che sia il più grande datore di lavoro della Confederazione. Nel 2016 volevano comprarci, ma non ce la siamo sentiti di lasciare la nostra creatura, e così abbiamo raggiunto un accordo estremamente vantaggioso per una cessione di una quota di minoranza. Per noi ha significato un boost per la crescita, la possibilità di entrare in un mondo multinazionale, con un partner prestigioso, con una grande rete distributiva affamata di prodotti italiani”.

Chi sono i vostri clienti tipo? “In Italia tutta la gdo, lavorando per la maggior parte con le Private Label dove, grazie alla nostra competenza, diamo un contributo importante nell’innovazione di prodotto, nell’intercettare i nuovi trend, ecc. Serviamo anche i discount, con prodotti da prezzo basso ma qualità alta. E ora stiamo puntando decisamente anche al foodservice, settore dove tanti produttori hanno una divisione dedicata, per cui riteniamo che ci sia sicuramente spazio. Già in UK serviamo catene di caffè come Costa, Caffe Nero, Starbucks. Per il resto, all’estero i clienti sono sostanzialmente retailer”.

Dove andate anche con prodotti a marchio. “Proprio così. Oltre alla citata gamma svizzera “Da Emilio”, abbiamo avuto un caso di successo recente con Saputo, il colosso canadese dei formaggi, noto anche qui a Bologna per essere lo sponsor della squadra di calcio. Abbiamo provato a lanciare un loro brand di formaggio cheddar, il Cathedral City: è stato un caso di successo incredibile, abbiamo scoperto che per gli italiani il cheddar non è solo un prodotto da fast food”.

Chi sono i vostri competitor? “Esistono concorrenti sui singoli prodotti, ma non c’è un competitor che raccoglie tutti i prodotti come noi. In Italia ci sono nei prodotti che importiamo, siamo distributori esclusivi di un prodotto, ma ovviamente ce ne sono altri simili. Sono singole aziende che lavorano su prodotti specifici, ma complessivamente un’azienda come noi in Italia non c’è”.

Natasha Linhart è un’appassionata del suo lavoro e si potrebbe parlare delle ore: ma a conclusione della nostra chiaccherata è utile parlare delle previsioni di sviluppo.

“Abbiamo un business plan sfidante che al 2026 ci porterà a 350 milioni di fatturato. Con piani di crescita soprattutto per Italia, UK e Giappone, puntando molto al segmento del foodservice, soprattutto in Italia. Investiremo anche su nuovi uffici, IT e poi sulle persone: la squadra arriverà a 130 collaboratori, dai 100 attuali. Tra queste, è strategico il rafforzamento del team di R&S anche per prodotti sostenibili, sia dal punto di vista della catena di fornitura che dei contenuti nutrizionali, con cibi sempre meno processati. ‘Proteggiamo, cresciamo e innoviamo’: è il nostro mantra. E, attenzione – conclude Linhart – essere un’azienda di persone per bene che fa le cose per bene, rispettando gli uomini e il pianeta, è una questione di business”.

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EFA News - European Food Agency
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