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Grani antichi... e leggende metropolitane

A dispetto dei luoghi comuni, questo tipo di cereali è poco sostenibile e ha una bassa resa produttiva

Se n'è discusso a un convegno a Bologna, promosso dall'Accademia Nazionale di Agricoltura.

Senatore Cappelli, Aureo, farro, grano monococco: sono nomi ormai noti a tutti. Li incontriamo ogni giorno tra gli scaffali dei supermercati, ricolmi di prodotti – farine, pane, pasta – a base di “grani” con caratteristiche uniche o di varietà particolari, possibilmente “antiche”. Alla base di questa corsa al grano migliore, qualsiasi cosa voglia dire, cavalcata dal mercato e dal marketing, c’è molta disinformazione. Sui "grani antichi" e, soprattutto, sulle tante bufale che li riguardano hanno fatto luce un libro (leggi notizia EFA News) e un convegno ospitato a Bologna dall'Accademia Nazionale di Agricoltura.

“Quando pensiamo ai grani antichi non dobbiamo andare troppo indietro nel tempo – ha introdotto Ercole Borasio, direttore generale della Produttori Sementi S.p.a. – perché sono i grani, nati dalla ricerca scientifica di Nazareno Strampelli, che sono stati utilizzati dai primi del Novecento fino al primo dopoguerra. In Italia la legge sementiera è stata introdotta con grave ritardo nel 1972 e, solo a partire da quella data, è stato iscritto il Registro Nazionale, al quale devono essere registrate tutte le varietà seminate che hanno superato specifiche prove di differenziabilità, uniformità e stabilità tali da ricevere la certificazione. Oggi le farine sono tutte registrate e controllate dal Crea, mentre i cosiddetti grani antichi, non sono iscritti a nessun registro e non hanno regole. Sono grani vecchi che non rispondono più alle esigenze nutritive e produttive di oggi, come si può pensare di nutrire il pianeta con grani non più attuali? E poi se compro una pagnotta di grano antico chi mi garantisce cosa c’è dentro e cosa mangio senza controlli? E’ stato dato valore a qualcosa che non ce l’ha”.

“Anche il messaggio della sostenibilità è falso perché i grani antichi sono decisamente meno produttivi di quelli odierni e perciò servirebbero molti più ettari di terreno da coltivare per avere un quantitativo accettabile. Lo stesso – ha proseguito Ercole Borasio - dicasi per la salubrità perché le piante, rispetto a quelle moderne, essendo il doppio di altezza sono maggiormente soggette alle micotossine, si allettano facilmente e sono anche più soggette all’assorbimento di metalli pesanti presenti nel terreno come il cadmio", ha proseguito Borasio, aggiungendo: "E’ giusto dirlo ai consumatori che pagano prezzi più alti per comprare prodotti fatti con queste farine”.

“Il grano antico ha un basso livello di resa produttiva", ha detto da parte sua Luigi Cattivelli, direttore del Centro di Ricerca Genomica e Bioinformatica del Crea. "L’Italia produce il 40% del frumento tenero che si usa per fare pane, pasta e pizza e il resto lo importa soprattutto dalla Francia, produciamo già meno di quello di cui abbiamo necessità. Se volessimo passare ai frumenti antichi scenderemmo al 20% di produzione nazionale, essendo così costretti a importare ancora di più dall’estero, anche da paesi che non rispettano le regolamentazioni internazionali, senza sapere cosa compriamo. I grani antichi non sono sostenibili a livello economico e ambientale, ma spezziamo una lancia a loro favore perché potrebbero essere coltivati nei terreni collinari e di montagna, dove i terreni sono abbandonati se non si coltiva vite, per fare piccole produzioni che magari aiuterebbero anche a evitare lo spopolamento di molte zone”.

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EFA News - European Food Agency
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